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La fine del tragico - 4
RIFLESSIONI A SALSOMAGGIORE
temi di teologia

Roberto Tagliaferri
La fine del tragico nel cristianesimo

Sommary: 1. Il rimprovero del mondo laico al Cristianesimo. 2. Fine del sacro e del tragico nel Cristianesimo. 3. Rivalutazione del tragico greco. 4. Il Cristianesimo e la morte da salvare.

1. Il rimprovero del mondo laico al cristianesimo

Qualcuno potrebbe pensare che finalmente si sia eliminato “il tragico” nel Cristianesimo a favore di una visione ottimistica e responsabilmente impegnata in un umanesimo integrale; invece in questa conversazione ci rammaricheremo di questa svolta e tenteremo di scoprire come, nel corso della storia, nel Cristianesimo sia prevalso un paradigma che decretava in larga misura la fine del tragico.
Questo tema viene riproposto da alcuni autori tra i quali Umberto Galimberti che ha un’intera sezione del suo ultimo libro “Orme del Sacro”, intitolata “Il Cristianesimo e la desacralizzazione del sacro”. Galimberti scrive: “Di recente la Chiesa cattolica ha chiesto perdono per le sue colpe storiche, ma nell’elenco mi pare manchino quelle forse più gravi, che sono da un lato lo smarrimento del senso del sacro, irreperibile nelle numerose ritualità giubilari dall’effetto più televisivo che sacrale, e dall’altro la delega della coscienza, a cui da sempre la Chiesa ha abituato il credente nei confronti del portavoce di Dio, che, quando non è incarnato dal pontefice di una Chiesa dalla lunga tradizione ma dal primo predicatore carismatico, porta a suicidi di massa che, della delega della coscienza, sono l’effetto esasperato e tragico” (pp.205-206). Per questo smarrimento del Sacro “la religione morirà: Non è un auspicio, né tanto meno una profezia. E’ già un fatto che sta attendendo il suo compimento. Non lasciamoci ingannare dalle folle oceaniche che si radunano intorno al Papa e neppure da quelle che seguono i popolarissimi predicatori televisivi protestanti in america. Non lasciamoci suggestionare dal diffondersi sempre più frequente e talvolta tragico delle sette apocalittiche, né dalle forme più dolci e suasive della new age. Tutto ciò non è, come è stato detto, una “rivincita di Dio”, ma solo l’ultimo lampeggiare del suo tramonto” (U.GALIMBERTI, Micro Mega, 2, 2000, pp.187-188).
Perché lo smarrimento del senso del tragico porta allo smarrimento del sacro? Che cos’è il senso del tragico?

2. Fine del tragico e del sacro

Il tragico segnala l’irrisolvibilità della vita che è fatta di ordine e di caos, di problemi e di soluzioni, di gioie e dolori; irrisolvibilità significa che non riusciamo a venire a capo dei molteplici problemi sul tappeto. Lottiamo per risolverli, troviamo strategie sempre nuovew per adattarci. Si pensi all’evoluzione, a quanti cambiamenti sono avvenuti pur di sopravvivere, si pensi alle culture e alla tecnica che hanno dato qualità ed hanno allungato la vita al prezzo di problemi ancora più angosciosi. Il tragico è l’irrisolvibilità di questi problemi. Ora c’è un atteggiamento per cui il tragico va accettato perché è il nocciolo della vita e c’è u atteggiamento che tenta di eliminare il tragico per la liberazione e l’affrancamento dell’uomo. L’irrisolvibilità è il riuscire ad accettare la morte che è il fenomeno più macroscopico della finitezza. L’invecchiamento è già morte, è anticipazione di questa impossibilità di risolvere la vita. Il tragico sarebbe ciò che fa grande l’uomo in quanto accetta e non fugge la sua morte. L’uomo è grande quando è capace di accettare il suo destino, quindi l’irrisolvibilità della morte non è qualcosa da superare ma da accettare. L’altro atteggiamento, che molti attribuiscono anche al Cristianesimo, è la non accettazione della dimensione tragica della vita e la morte diventa il chiaro segno dell’alienazione dell’uomo, di quello che si può chiamare peccato. Quindi la ragione del vivere sarebbe la lotta contro la morte, la lotta contro questo destino avverso che incombe su tutti gli uomini e la religione sarebbe intesa come la tecnica di salvezza dalla morte e dal destino tragico.
L’autore che ha anticipato di un secolo questi grandi temi detti post-moderni, è Friedric Nietzsche che ha pagine straordinarie e indimenticabili. E’ durissimo contro il Cristianesimo esattamente su questo punto perché ha occultato la tragedia dell’uomo. Scrive in “Così parlò Zarathustra”: Vi scongiuro fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze” (p.6). La polemica col Cristianesimo porta alla riabilitazione dello spirito greco. Due le accuse:
2.1. Il Cristianesimo vuole essere solo morale. “L’odio contro il mondo, la maledizione delle passioni, la paura della bellezza e della sensualità, un al di là inventato per meglio calunniare l’aldiquà, in fondo un’aspirazione al nulla , alla fine, al riposo… Di fronte alla morale ( soprattutto cristiana, cioè alla morale assoluta)la vita deve avere costantemente e inevitabilmente torto, dato che la vita è qualcosa di essenzialmente immorale e la vita deve essere infine schiacciata sotto il peso del disprezzo e dell’eterno no, essere sentita come indegna di essere desiderata, come priva di valore in sé” (“La nascita della tragedia, pp.11-12).
2.2. Il Cristianesimo ridotto ad ortodossia, la fede nel credo. “Questa è la maniera in cui le religioni sogliono estinguersi: quando cioè, sotto gli occhi severi e razionali di un dogmatismo ortodosso, i presupposti mitici di una religione vengono sistematizzati come una somma conchiusa di avvenimenti storici e si comincia affannosamente a difendere la credibilità dei miti” (p.74).


Questi due accuse rivolte al Cristianesimo, eliminano il tragico.


3. Fine del tragico e del sacro

Cos’è il tragico? Nella tragedia antica era più un patire che un agire. Al contrario della dialettica socratica che è ottimistica perché crede in un rapporto necessario tra colpe e punizioni, tra virtù e felicità, la tragedia, sorta dalla compassione per i dolori del dio o dell’eroe, è nella sua essenza pessimistica; in essa l’esistenza è qualcosa di sommamente terribile e l’uomo si precipita nella sua sventura cieco e con il capo velato. Il tragico è dionisiaco non apollineo e si fonda sull’ebrezza, sul rapimento. In Dioniso tutto l’eccesso si svela come verità. La nascita del pensiero tragico deriva dall’ebrezza estatica che dice la verità scacciando le muse delle arti e delle illusioni. Il dionisiaco nel pensiero greco si contrappone ad un ordine superiore del mondo e vede ovunque l’atrocità o l’assurdità dell’esistenza umana. In Eschilo il disgusto si risolve nel brivido sublime di fronte alla sapienza dell’ordine cosmico, che è difficilmente riconoscibile solo per la debolezza dell’uomo. In Sofocle questo brivido è ancora più violento poiché quella sapienza è del tutto insondabile. Che l’uomo manchi della conoscenza di sé, è il problema di Sofocle; che l’uomo manchi della conoscenza sugli dei, è il problema di Eschilo.

Dolore e morte non sono inseriti in uno scenario di colpa, ma nel ciclo della natura. Massimandro scrive: “Da dove infatti gli esseri hanno origine, ivi hanno anche la distruzione secondo “necessità”: poiché essi pagano l’un l’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”. La colpa sorge dalla tracotanza di chi non accetta o non conosce la misura, la propria condizione, come Prometeo. E’ il dolore a generare la colpa nei Greci, non la colpa generale il dolore come nel Cristianesimo. Agamennone, portando via la concubina d’Achille dopo aver perso la sua, dice: “Ma io non ho colpa, bensì Zeus e la Moira e le Erinni viaggiatrici nelle tenebre: furono essi che nell’assemblea mi gettarono nel senno uno sciagurato accecamento quel giorno che tolsi ad Achille il suo premio”( Cap XIX vv 86-90) E’ il dolorte che fa parte della natura a portare all’accecamento. Non essendo il male conseguenza di una colpa, non c’è redenzione che liberi dal male. Di qui la tragedia come irrisolvibilità dall’intrigo della vita, come forza nella capacità di “guardare in faccia il dolore”.

Il tragico è stato incarnato in modo magistrale dal mondo greco e Raffaela Cantarella eminente grecista, tentando di essenzializzare il tragico dice che è una categoria dell’esistenza, ce l’abbiamo addosso sempre. “la coscienza di esistere in un mondo contradditorio” irrisolvibile, con forze che si oppongono sfuggono non sono addomesticabili, non sono temibili)”, e transeunto come l’uomo nato dal caso e destinato alla morte che tenta invano di trovare la ragione e lo scopo dell’esistenza.” Noi siamo come una mosca nella bottiglia che tenta in tutti i modi di trovare la via d’uscita e quando pensiamo di averla trovata ci accorgiamo di essere dentro un’altra bottiglia. Però non possiamo non cercare la via d’uscita e il tragico è questa impossibilità di venire a capo al problema, di fare la quadratura del cerchio. Il tragico non si riduce alle manifestazioni letterarie non è solamente un problema che si riduce ad un genere letterario preesistito che poi è diventato dramma, che poi si è risolto in altri generi letterari nella modernità, il tragico è dappertutto. E’ quello dello scultore che tenta di far venire fuori da un blocco di marmo il Mosè di Michelangelo, è il senso di caducità e di mistero che incombe.
?con l’ombra cupa del bosco sulla trionfante primavera di Botticelli.
Tragica è dunque la vita di fronte al mistero di fronte all’irrazionale? (ciò che non è riducibile alla nostra capacità di dare senso), ?di fronte all’eterno tragica è la condizione stessa dell’uomo furono i greci a sentire per primi, ci hanno lasciato una testimonianza straordinaria, siamo tuttora infastiditi noi che andiamo a vedere le partite e loro invece dal 18 al 21 di marzo andavano a celebrare le antisterie, feste ateniesi in onore di Dioniso con la gara fra i migliori scrittori e la gente che faceva il tifo, era un atto sacro, sacrale, e lì c’erano i grandi misteri della vita che venivano proprio detti I grandi misteri della vita. C’era anche un concorso a premi con alcuni autori che vincevano, Euripide, Sofocle e ancora prima Eschilo. Furono i greci a sentire per primi questa condizione e ad esprimerla mostrando che soltanto l’arte poteva dare una testimonianza all’enigma del nostro essere. Com’è nata questa disposizione d’animo della tragedia greca? Non è tanto interessante l’origine ma è interessante che nasca da un’istanza religiosa. ?Ma la religione è una tragedia greca, per il senso sacro della vita e della morte per la presenza attiva e costante di un dio negli atti e nel destino dell’uomo, per la coscienza del limite umano oltre il quale è la dismisura che se non è accettata è foriera di rovina?. Voi conoscete le grandi tragedie possiamo ricordarne qualcuna di Sofocle come L’Edipo Re, Edipo è ancora più grande rispetto ai nostri problemi edipici, vi leggo la trama così la conosciamo, come l’altra grande tragedia ?L’antigone?. La trama riguarda questo Edipo che dopo aver liberato la città di Tebe dall’enigma della sfinge, qual è l’animale che quando è piccolo cammina con 4 zampe, poi con due, e quando è vecchio con tre, enigma che portava pestilenza alla città, succede al trono di Laio sposandone la vedova la regina, compare un morbo che distrugge ogni forma di vita nel paese, Creonte è il fratello della sposa, tornato da Delfi dove lo aveva inviato Edipo riferisce che secondo l’oracolo bisogna allontanare dalla città gli assassini di Laio, ucciso in viaggio da alcuni predoni. Edipo si incarica di trovare i colpevoli e per consiglio del coro ricorre al vate Tiresia poiché questi si mostra reticente Edipo lo accusa di essere stato l’istigatore del delitto di Laio e quindi la causa di tutta la pestilenza e Tiresia sdegnato rivela ?l’impuro, il colpevole che Edipo ricerca è Edipo stesso che senza saperlo vive in turpe società con gli esseri più cari perché ha sposato la madre senza saperlo, ha ucciso il padre senza saperlo, Edipo si difende e biasima con parole amare l’invidia del cognato Creonte che per succedergli sul trono avrebbe tramato con Tiresia la macchinazione. E Tiresia ripete preciso che l’uccisore di Laio è lì e fra poco sarà scoperto e diverrà cieco da veggente che era e si troverà fratello e padre insieme dei suoi figli, figlio e marito a un tempo di sua madre, uccisore del padre cui è successo nel talamo, conducendo egli stesso lunghe e difficili indagini attraverso alternative di speranze e di timori Edipo giunge alla certezza della spaventosa verità senza conoscerla e questa è la vera tragedia, senza saperlo, uccise in una contesa il padre Laio venuto a Tebe, acclamato re dopo aver liberato la città dal sanguinoso tributo alla sfinge ha sposato la propria madre Giocasta vedova di Laio e ne ha generato quattro figli, Eteocle e Polinice, Antigone e Ismene. Giocasta non regge all’orrore della rivelazione e s’impicca. Sul cadavere con una fibbia d’oro della morta Edipo si acceca. Dopo aver raccomandato le piccole figlie a Creonte Edipo si allontana solo in volontario esilio. L’altra trilogia va avanti: Eteocle e Polinice si combattono e uno sta con gli avversari di Creonte l’altro è alleato con Creonte, rimangono uccisi tutti e due, erano i nipoti che gli erano stati raccomandati, chi tramava contro di lui è morto e lo vogliono seppellire. La sorella Antigone va contro il decreto del re di non seppellire il fratello e lo fa seppellire. La trovano mentre lo sta seppellendo allora Creonte fa imprigionare Antigone e lì succede la tragedia: Antigone in carcere si suicida, venutolo a sapere si uccide la moglie di Creonte, un morto dopo l’altro, è come se gli eventi non fossero più in mano a loro.
Questo è il problema della tragedia: la vita non è nelle nostre mani, gli stessi eventi hanno una concatenazione che noi crediamo di poter dominare trovando delle leggi stabili e invece quando abbiamo trovato il marchingegno prendiamo l’aspirina per il raffreddore ci viene la broncopolmonite, poi prendiamo l’antibiotico ci viene il mal di fegato, e via. E’ l’impossibilità di ricondurre la vita a un ordine, non riusciamo a tenerla sotto controllo e questi sono anche gli eventi stessi. Noi possiamo capitare casualmente negli eventi. Voi capite che la morte la tragedia il dolore sono qualcosa che è legato alla natura la nostra vita è dentro questo enigma e quindi l’atteggiamento corretto è l’accettazione perché la vita è legata alla morte e la morte è legata alla vita. Il dolore e la morte non nascono da una colpa originaria che avrebbe distrutto l’ordine del mondo, nascono invece dalla consistenza dalla stessa natura che crea e distrugge. Ci può essere però anche un male dentro, quando l’uomo si ribella a questa sua condizione, si ribella all’ananche, al destino e prende quell’atteggiamento che è l’atteggiamento più brutto per il mondo greco, quello di chi si sente superiore, dell’ubris la tracotanza, che se ne ride del suo destino, come è stato Agamennone che si rifà della perdita della sua concubina portando via quella di Achille.
Quello che ci interessa nel nostro discorso è che in questa considerazione del mondo greco il tragico è la considerazione di com’è il mondo. Qual è la differenza invece che viene per esempio dalle religioni esoteriche del Cristianesimo soprattutto come si è imposto lungo i secoli? Nel Cristianesimo succede che la morte è la conseguenza del peccato. Paradossalmente togliendo il peccato togliamo la morte, quindi Gesù Cristo è venuto senza peccato per togliere la morte. Siamo in un versante soteriologico. Nel modello greco non c’è soteriologia, lo dice bene “non essendo il male conseguenza di una colpa nel mondo greco non c’è invenzione che liberi dal male il male va sopportato come tutto ciò che è per natura. La forza sta nella capacità di guardare in faccia al dolore. Da questo punto di vista la religione cristiana rappresenta l’esatto capovolgimento del mito greco del tragico greco, per quest’ultimo infatti la colpa nasce dal desiderio illimitato di voler perdurare oltre misura nelle condizioni d’esistenza, e per la religione cristiana è proprio questo desiderio illimitato a redimere la colpa.” Noi siamo quindi su un altro fronte, cioè la vita non viene accettata per quello che è, la vita che è questo mondo tragico dove c’è l’irrisolvibilità di quello che ci resiste. Per noi questa vita è tragica perché è conseguenza del peccato, dunque è da redimere, da oltrepassare, e una prigione è tutta segnata dal peccato. Siamo in una valle di lacrime fino all’eccezione negativa quasi dualistica che il Cristianesimo però non ha mai accettato di un mondo che è contrario a Dio.

4. Il Cristianesimo e la morte da salvare

Fate questo esercizio: andate ad ascoltare 10 messe. Sono disposto a scommettere con voi che su 10 prediche 10 preti vi diranno che bisogna salvare l’uomo dal peccato e che il senso della venuta del Figlio di Dio in mezzo agli uomini è perché gli uomini sono peccatori e devono essere salvati, redenti. Perché il cuore dell’uomo è lontano da Dio, con le mille variazioni. Ciò significa che globalmente il Cristianesimo ha introiettato un modello interpretativo del mistero di Gesù Cristo in termini soteriologici: Gesù è venuto per salvare l’uomo peccatore. I teologi medioevali chiedevano ?cur deus homo? perché Dio si è fatto uomo? Per salvare gli uomini, era la risposta. E se l’uomo non avesse peccato? Forse Dio non sarebbe stato trinitario? E’ interessante come il Cristianesimo complessivamente è venuto avanti come religione soteriologia, con rarissime eccezioni, come l’atteggiamento di Francesco che ha nei confronti del creato un senso positivo. Nel Cantico delle creature chiama la morte sorella morte. Ma è un caso abbastanza singolare. Ci sono studi molto belli come quelli di Baudrillard, ?Lo scambio simbolico e la morte? oppure quelli di Philip Ariès sul morire in Occidente: la morte è il nemico che deve essere eliminato.
Al contrario Paolo in 1Corinti 15,51 scrive: “Ecco io vi annunzio un mistero: non tutti certo moriremo ma tutti saremo trasformati…”. Il contesto era che sarebbe arrivata la fine del mondo prima della morte quindi una parusia imminente. E continua: “..in un istante in un batter d’occhio al suono dell’ultima tromba suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati”. La morte è una grande trasformazione, e questo può stare nel paradigma del tragico. “E’ necessario infatti che dentro questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità. Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito di incorruttibilità e questo corpo mortale di immortalità si compirà la parola della scrittura: la morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è o morte la tua vittoria? Dov’è o morte il tuo pungiglione?” Notate che questo è il passaggio che determinerà un’interpretazione di tutto il Cristianesimo in termini di salvezza dalla morte. “Il pungiglione della morte, dice Paolo, è il peccato e la forza del peccato è la legge.” C’è la morte perché c’è il peccato. “Allora siano rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo.”
Questo testo ha influenzato moltissimo la nostra mentalità. La fine del tragico vuol dire che la vita sottoposta alla morte complessivamente è da superare, perché la vita è tutta segnata dal peccato e dalla morte da tutte le parti. E quali sono i punti in cui il peccato si rivela? Soprattutto nel corpo e nella sensibilità. Quando Agostino affronta il problema gnostico sull’origine del male, dove lo fa ricadere? Su Dio? Allora l’uomo non ha responsabilità. Su un principio dualistico per cui Dio combatte un altro principio malefico? Anche in questo caso l’uomo non ha responsabilità. La soluzione di Agostino al problema gnostico del male si risolve perché l’uomo nella sua libertà nel suo libero arbitrio va contro Dio; l’origine del male dunque è l’uomo. E se è l’uomo, dov’è il punto più fragile dell’uomo? I sensi, il corpo, che dicono la nostra condizione fallibile, la fragilità è proprio il segno del peccato. La conseguenza antropologica e teologica è che noi cristiani abbiamo faticato a lungo per riconciliarci con la nostra condizione umana. La nostra vita ha rischiato di essere una grande fuga, la fuga mundi. Non c’è stata mai una vera e propria riconciliazione. E’ vero che lungo la storia della chiesa ci sono tantissimi esempi che vanno in una direzione diversa e che il Vaticano II ha parlato della bontà delle cose create, però la problematica su questo punto è sempre ambigua perché nella nostra predicazione e nella rivendicazione della plausibilità di Gesù Cristo affermiamo che Egli è il salvatore del mondo. Molto difficilmente viene fuori un altro ragionamento che Gesù Cristo ad esempio è il nuovo Adamo che è riuscito a stare di fronte a Dio, è il rivelatore di Dio. Sostanzialmente puntiamo su Gesù Cristo salvatore dal peccato e quindi dalla morte. Il punto decisivo è che la morte è l’ostacolo alla vita, è il contrario della vita, è abominevole e vergognosa. Questo è il punto delicatissimo perché su questo si gioca il Cristianesimo nella post-modernità. Se si toglie il tragico tutta la vita dell’uomo è qualcosa da superare, e quindi saremo sempre un po’ in conflitto con la nostra condizione, con i nostri sentimenti, i nostri sensi, anche con la nostra morte, non riusciremo mai a riconciliarci con il fatto che dobbiamo morire, non impareremo mai a morire, ma continueremo sempre a scappare, studiando tutti i marchingegni possibili per eliminare la morte. Ma dentro questa attitudine psicologica c’è non solo poco rispetto per l’humanum, ma anche per Dio Creatore perché a questo punto non è altro che colui che deve rimediare alla propria creazione sottoposta alla finitezza e alla morte. Dio, nella versione soteriologia esasperata, diventa l’ultimo stratagemma in mano all’uomo per sfuggire alla sua condizione. Su questo punto ci sono gli scontri anche attuali nell’interpretazione del Cristianesimo. E quando leggiamo il Nuovo Testamento noi ci troviamo di fronte a testi ambigui. Lo stesso Paolo non pensa solo alla morte come il pungiglione del peccato ma dice che la morte è il luogo del nostro incontro con Dio. Paolo facendo il discorso sul battesimo dice: ?O non sapete fratelli (cap. 6 lettera ai Romani) che quanti siamo stati battezzati in Gesù Cristo siamo dunque stati sepolti insieme con lui nella morte??. Cosa vuol dire essere Cristiani, essere battezzati? Vuol dire essere immersi. In che cosa? Non nella Resurrezione di Gesù Cristo ma nella morte di Gesù Cristo. ?Per mezzo del battesimo siamo dunque stati sepolti insieme con lui nella morte perché come Cristo fu resuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre così anche noi possiamo camminare in una nuova ? . Se infatti siamo stati completamente a lui con una morte simile alla sua, se noi siamo riusciti a morire come muore lui, se abbiamo imparato a morire come ci ha insegnato lui a morire, se siamo in grado di morire di accettare la morte, lo saremo anche con la sua Risurrezione.?
Dunque in questo testo la Risurrezione non è la negazione della morte ma la morte è la condizione per risorgere. E’ molto diverso. Quindi Gesù Cristo è venuto non per distruggere la morte ma per aiutarci a vivere la morte come si sta nella morte di fronte a Dio, dove si scatena la tentazione più violenta che ha subito anche Gesù Cristo. La tentazione più violenta è quella di non accettare il tragico. Qual è stata la colpa originale, il peccato? Il non accettare il tragico, non accettare la condizione del morire. Gesù è venuto accettando radicalmente la condizione del morire.
Nella Lettera ai Filippesi troviamo il famoso inno cristologico prepaolino e antichissimo: “Cristo Gesù pur essendo di natura divina non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio ma spogliò se stesso apparso in forma umana si fece obbediente fino alla morte e alla morte di croce (la morte in croce è l’epifenomeno della nostra finitezza) per questo (per aver accettato radicalmente a sua condizione umana, cioè come viene definita nella lettera ai Filippesi la Kènosi l’abbassamento di Dio), per questa sua accettazione Dio lo ha esaltato (esaltazione significa essere presso Dio, come ascensione, per questa sua fedeltà al tragico, per aver accettato la sua vita, per non essere scappato, per non aver usato Dio perché lo tirasse fuori dalla sua condizione, perché ha accettato di vivere la libertà totale nella sua finitezza, perché ha accettato di non avere la soluzione alla sua condizione, perché non ha accettato di non chiudere il cerchio pur essendo il Figlio di Dio, perché ha accettato di morire senza pensare che la morte fosse un ignominia ma la condizione in cui si poteva esprimere la libertà di fronte al mistero di Dio, perché ha accettato il mistero di Dio senza poter sapere come controllare Dio, per questa sua radicale obbedienza) Dio lo ha esaltato, e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome, perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi in cielo in terra e sottoterra e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore”.
Qui si gioca il Cristianesimo perché è nell’accettazione del tragico, della nostra condizione di fronte a Dio, ricusando di risolvere l’irrisolvibile che non ci compete, accogliendo quello che siamo senza usare Dio per diventare diversi, è proprio se abbiamo questo senso profondo del tragico che c’è la risposta da parte di Dio.
Sono due modelli assolutamente diversi: in uno si usa Dio per sfuggire alla morte nell’altro la morte è la condizione per poter accedere nella fede, nell’atto di fede a Dio.
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